28 ottobre 2014

Il Non Ritorno

Senegal. Isola di Gorée.

Sto.

In silenzio.

In un angolo buio di una cella. Chiudo gli occhi, lacrimo, i peli sono dritti, sull’attenti, come se il pericolo fosse ancora imminente.
Da un momento all’altro apriranno quella porta, che dà sull’Atlantico, oceano padre, oceano boia. La porta del viaggio senza ritorno. Dal momento in cui varcherò quella soglia  non avrò più la possibilità di scegliere, ma forse è da quando mi hanno catturato nel villaggio che non esiste per me più libero arbitrio. Adesso l’arbitro è lo schiavista. Nero come me, per giunta. A quanto gli avranno comprato l’anima, quei ricchi invasori del piano di sopra?

Se sono troppo debole, da quella porta verrò lanciato direttamente in mare, a fare sabbia, assieme ad altre centinaia di corpi, quel giorno sulle rive dell’isola. Ma se sono forte, come lo erano i miei antenati, come lo sono i miei fratelli e sorelle, una scelta cel’ho. Lanciarmi io stesso in mare,  e nuotare lontano, schivando i moschetti.
Oppure salgo sulla nave, per andare in Louisiana, sperando di arrivarci, perché la peste cova. Son tre mesi che stiamo qui, almeno usciamo a sentire il vento. Mio figlio nella cella accanto, quella col cartello “enfants”, verrà mandato a Cuba, la mia donna, nella cella “jeunes filles”, in Brasile.
Mi hanno privato anche del nome. Non sono più qualcuno, adesso sono un numero. Tra qualche settimana il numero ridiventerà un nome, assegnato dall’acquirente.
Comunque sia, varcando quella soglia entrerò affaticato nel regno dei morti.

Quante mani hanno stretto quelle grate, quante unghie disperate hanno graffiato le pietre laviche delle pareti, quante catene hanno strisciato su quel pavimento? La casa degli schiavi, nell’Isola di Gorée, a 20 minuti di battello da Dakar, è un museo, adesso. E a molti turisti questo sembra bastare.
“Casa” di schiavi e schiavisti olandesi, portoghesi e francesi dal 1500 al 1848, Patrimonio UNESCO dal 1978, la “Maison des Esclaves” è ben risistemata, con un museo sul commercio triangolare (europa-africa-america) al piano di sopra, e le celle al piano terra. Bella l’architettura, bellissimi i discorsi delle guide, pessimi gli schiamazzi della gente. Bianchi, neri, gialli… un po’ di silenzio per favore! Ricordiamo! Rispettiamo, cazzo!
Quasi mi vergogno a sentirmi tra i pochi che ha il bisogno di stare li’ dentro seduto in raccoglimento. Mi vergogno perché sono bianco. 

Nemmeno Youssur Ndiaye, coetaneo artista di strada, ha voglia di sviscerare tali emozioni. Con un “non parliamone più, per favore” che gela il sangue, mette un punto grosso come il mondo sul mio desiderio, espresso sicuramente con enfasi (come mio solito), di conoscere le sue opinioni sul passato dei suoi antenati. Poi si riprende, mi chiede scusa: Sai, possiamo anche perdonare. Ma non possiamo dimenticare. Eppure il desiderio sembra proprio essere quello.

Lui avrà perdonato? E io? In me c’è tutta quella storia, cromosomi conquistatori e cromosomi conquistati. Il senso di colpa non porta a nulla, e nemmeno la vergogna, o la rabbia, o la vendetta. Quello che possiamo fare è RICORDARE quell’orrore, TROVARE le similitudini con quello che succede oggi, per CAPIRE meglio e NON PERMETTERE CHE RISUCCEDA, in alcun forma. 

Ma perdonare… Non credo che si possa perdonare qualcosa che è in sospeso… Le fasi di negazione-rabbia-depressione-accettazione-cicatrice, ovvero l’elaborazione del lutto, sono ancora in divenire.  




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