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Si dice che
Buddha, nel suo girovagare in Oriente, sia arrivato anche in Sri
Lanka. Quando vi arrivò, lasciò un'impronta sul picco di una
montagna nel mezzo dell'isola. Questa montagna da allora si chiama
Sri Pada (la sacra impronta) o, nella sua invadente versione
cristiana, Adam's Peak (facile l'associazione d'idee). Il
pellegrinaggio in questo luogo è imperativo per i buddhisti, per i
viaggiatori e per chiunque piaccia camminare una notte lungo uno
stretto e ripido crinale rinforzato con circa 5000 gradini. Essendo
buio, è altrettanto imperativo seguire le luci che, come un
giallastro serpente senza testa ne' coda, ti apre sinuosamente la
strada verso le tenebre più assolute, se intraprendi la marcia
durante la luna nuova. Altrimenti dev'essere uno spettacolo ancor più
suggestivo. Curioso come sono, pregusto la soddisfazione della
scalata e della vista all'alba in cima al mondo, con quel pizzico di
egocentrismo ed arrivismo più tipici in un occidentale che in un
singalese, il cui unico obiettivo, nell'intraprendere la divina
scalata, è puramente quello di dimostrare la propria devozione e
purificare lo spirito. Un'altra forma di intraprendenza, quella che
spinge il praticante del dharma (l'etica buddista) a
raggiungere l'unica e vera meta finale, il distacco dalle cose
astratte e materiali, dalle bramosie e timori, uno ad uno, fino a
liberarsi della dipendenza più profonda: l'attaccamento alla vita e
il desiderio, quindi, di rivivere, di continuare ad essere parte
involontaria del circolo delle rinascite, del Samsara. Camminare fino
al tempio in cima allo Sri Pada è uno strumento di meditazione che
ha proprio lo scopo di captare l'essenza del qui e ora, primo passo
per il distacco totale, il Nirvana.
Io,
ovviamente, non sapevo ancora un cazzo di 'sta roba, volevo solo
camminare, di notte, da solo, in una direzione, per godermi un bel
paesaggio all'alba. Terra terra, insomma. Quindi, dopo aver raccolto
gli ultimi consigli a riguardo, tipo Parti verso le 2 di notte per
essere alle 6 su, Portati del cioccolato, delle buone scarpe e una
coperta, Va' con karma, Quando riscendi non camminare bensì saltella
sennò di fotti le ginocchia e, soprattutto, Non accettare caramelle
dagli sconosciuti (ringrazio sempre chi mi fa questa raccomandazione,
se la seguissi mi risparmierei un sacco di diarree), mi preparo due
litri di tè, caldo ma poi freddo, ed esco dall'ostello, col fare
sicuro ed il passo certo, verso...boh, verso dove? E' buio e si
vedono solo stelle. Mi faccio piccolo piccolo e seguo una famigliola
singalese fino all'inizio delle gradinate, da lì continuo da solo.
E' proprio come me l'avevano descritta: una serie infinita di gradini
illuminati da luci al neon, sostituite dal progresso alle lampade al
olio. Verso il nulla, che dicono sia circa 1000 metri sopra. Per
farla breve, perché la camminata non lo è stata affatto, ho passato
la prima ora a pensare a mille cose, soprattutto a “quanto diavolo
mancherà?”. Ogni 500 gradini circa facevo pausa cioccolato e tè,
piccole mete intermedie che addolciscono il tragitto. Comincio ad
osservare le persone, che, di tanto in tanto, incontro e supero (sì,
sono fastidiosamente veloce quando cammino e, soprattutto, quando
salgo le scale e mi mancano 500 gradini alla prossima pausa
cioccolato). Identifico due tipologie di persone: i trekking-turisti,
o trekkisti, ed i pellegrini buddisti. I trekkisti sono super
attrezzati, con iper scarpe, giga zaini, tera polpacci, e duemila
rifornimenti. Camminano con passo regolare, sostenuto, non guardano
in faccia a nessuno, il respiro un metronomo, il personaggio di
riferimento: Terminator. Li guardo e sorrido, sicuramente non sono
uno di loro, nel senso che sì sono turista e sì mi piace fare
trekking, ma non sono un trekkista, almeno osservando come sono
vestito e le scarpe sbrandellate che ho ai piedi. Sopratutto, non
sono tedesco. Poi ci sono i devoti: famiglie in pellegrinaggio,
composte da svariati elementi, tra i quali attirano la mia attenzione
le nonne, definitivamente agli antipodi rispetto ai trekkisti. Una
signora in particolare cattura la mia attenzione, sulla cinquantina
(dimostrandone 80), senza scarpe, che mormora un mantra in lingua
pali, con un bambino in spalle...senza scarpe, con un bambino in
spalle...dentro di me cigolii di una porta che non avevo mai aperto.
Comincio a notare i movimenti di questo miracolo, che compie ogni
passo, ogni gradino, come se fosse il primo, e l'ultimo.
Inimmaginabile la fatica, inimmaginabile la fede. Due mondi, sullo
stesso sentiero, diversi i propositi, medesima la meta. Io, nel
mezzo, condannato ad essere osservatore esterno degli avvenimenti,
archetipico eremita, acquario, osservatore del flusso e allo stesso
tempo vettore dello stesso, sposto la mia attenzione dal modus
operandi scientificamente occidentale, al lento ed infinito flusso
del presente. Smetto di guardarmi attorno, perché il fuori è bello,
sì, ma il dentro dicono che lo sia di più. Il mio cervello fa clic,
la leva si sposta su “concentrai sul tragitto, non sulla meta”,
la porta smette di scricchiolare, è ora completamente aperta, entro
in una stanza che è fatta di sensazioni, quelle nei piedi, che
toccano il suolo e poi lo abbandonano, quella degli alluci che
frizionano sugli indici e sui calzini, quella della gamba, che si
solleva, si sposta in avanti e si riabbassa, fino ad un nuovo
contatto con la terra. Un'altra volta, i 4 elementi: il fuoco, un
movimento dal basso verso l'alto, del piede destro che si stacca da
terra; l'aria che sotto forma di vento muove il piede in avanti;
l'acqua, fedele alla legge di gravità che la obbliga a scendere.
Così fa il piede, poco prima di toccare e sperimentare l'ultimo
degli elementi, la terra, sulla quale fa forza, permettendo all'altro
piede di sollevarsi, ristabilendo le condizioni naturali di
equilibrio. Ho trovato il mio mantra, grazie signora ji. Non è
fatto di parole, di immagini, di speranze ne' di conti alla rovescia,
arrabbiature e dolori muscolari, è una ripetizione circolare del
presente: Un respiro, che agisce. Questo significa mantra, in
sanscrito. Mi trovo quindi a concentrarmi su ogni singolo passo, non
so più chi incrocio, da chi vengo superato, chi e cosa c'è attorno
a me, se non un percorso, terminato il quale mi risveglio.
Sono alla
fine (o all'inizio?), del cammino. Un picco, un tempio. Centinaia di
persone, distese sotto le coperte, in attesa dell'alba, la quale,
puntuale, fa capolino tra le montagne, camuffata tra le nuvole rosa
ed il senso di sollievo dei visitatori. Si cominciano a
contraddistinguere i laghi, le vette, gli uccelli, il cui primo canto
viene interrotto da un profondo gong. Cominciano i canti sacri.
Partono le foto, la magia sembra perdersi tra le “turisticate”,
immancabili in ogni occasione speciale; invece l'atmosfera sacra
rimane, perché è troppa, non bastano delle foto digitali e degli
stretching qua e là per annullarla. Non so quanto tempo mi fermo
lassù, a contemplare il panorama, i canti, i devoti abbracciati che
cominciano ad uscire dalla coperte, e a ripensare a quello che,
salendo, avevo sperimentato. So solo che ad un certo punto stavo
balzellando verso valle, lasciando che fosse la gravità a portarmi
giù.
Avevo
portato con me un secchio, vuoto. Ad ogni gradino a cui avevo fatto
attenzione, avevo versato in quel secchio un goccio d'acqua. Ogni
istante goduto era qualcosa in più. Acqua, vita che mi riempiva.
Sono arrivato in cima che il secchio era pieno, ma non pesava. Bensì
spingeva, verso il basso. Così l'ho svuotato, sul primo/ultimo
gradino, e con quella cascatella che si è venuta formando, sono
ridisceso. Per circa un'ora e mezza ho fluito, risentendo ogni cambio
di pendenza, ogni gradino, ogni istante, l'aria che cominciava a
riscaldare, il sole che ora illuminava la signora ji col
bambino. Assorta nel suo, di presente, a metà del suo cammino
continuava a ripetere quel mantra.
Allora
continuo a scendere. Accanto a me appaiono tutti coloro che cercano,
a proprio modo, il loro presente. Con l'arte, per esempio: suonando,
dipingendo una tela, cantando o ballando si riesce a carpire
quell'istante presente di cui tanto abbiamo bisogno, per non rimanere
incatenati ai pensieri passati o per non farci tirare troppo
rapidamente da un futuro che, spesso, non è quello che volevamo un
istante prima. Ogni nota, ogni pennellata, ogni movimento del corpo,
è una di quelle gocce che riempie il secchio, per questo l'artista
non può fare a meno di essere artista. E allo stesso modo chi va a
correre, nuota, o spinge sui pedali: qualunque sport, se fatto per
amore allo sport e non per eccessivo narcisismo, richiede una
notevole concentrazione sul presente. Nell'abbracciare, baciare,
toccare, fare l'amore, non c'è tempo e spazio per altri pensieri,
tanto che se non sei lì, in quel momento, abbracciando, baciando,
toccando e facendo l'amore, cioè ci sei, fisicamente, ma non con
tutto te stesso, lei o lui ti sgama subito, e il bacio è freddo, il
tocco è fastidioso, l'orgasmo è precoce, o tardivo. Altro modo di
sentire il presente è meditando: cambiano i fattori ma il risultato
rimane lo stesso. Se vivi il presente, vivi davvero. Questo non vuol
dire che uno debba fregarsene di fare piani, o che la direzione e la
meta non siano importanti at all, ma della filosofia del
tavolo da biliardo ne parlerò dopo. Ora mi limito ad estendere il
ragionamento a tante altre persone, attività e lavori, come per
esempio i medici, che non possono permettersi di pensare ai fatti
loro quando hanno per le mani un paziente a cui devono salvare o
migliorare la vita; i professori, che devono dare un certo peso ad
ogni loro parola, se vogliono avere un impatto costruttivo sugli
allievi, gli artigiani, che devono concentrarsi sul movimento delle
loro mani e dello strumento che stanno usando . Alla fine ti accorgi
che tutti, se vogliamo fare bene un lavoro, o uno sport, suonare
bene, o tessere una bella sciarpa, dobbiamo per forza appellarci al
presente. E' un'arma potentissima. E quando non la usiamo, ci
perdiamo tutta la bellezza.
Ogni
saltello verso valle è un pensiero, ora rivolto a Siddharta di
Hesse, ora ai film L'attimo Fuggente e La Forza del Campione, ai
concetti del karma, del qui e ora, della Forza jedi, il Koln Concert
di Keith Jarrett ed ai raga di Ravi Shankar, al tiratore di coltelli,
a Pantani in fuga in salita, alla signora Ji col bambino, ai
devoti in pellegrinaggio verso uno dei luoghi santi indiani, e ad
altri 4988 messaggi.
Compio un balzo più ampio, di qualche mese, di qualche migliaia di
chilometri, fino a Gangotri, Uttarakhand, India. Un altro luogo dove
si è aperta una porta, alla fonte di uno dei tre fiumi che,
congiungendosi, formano il Gange. Due giorni di cammino, lungo una
valle che dal villaggio di Gangotri porta, dopo 20 km, a circa 4500
metri, sul fronte del ghiacciaio dal quale sgorga, attraverso Gaumukh
(la bocca della mucca), il fiume sacro indiano per eccellenza,
impetuoso, energico e turbolento fin dalla nascita. Sullo sfondo, la
parete del ghiacciaio e, più in là, i picchi del Bhagirathi. Arriva
il suono squarciante causato dal crollo di porzioni di ghiaccio,
unico rumore che riesce a sovrastare l'incessante grido del fiume,
simile a quello di un leone, un elefante ed una scimmia urlatrice che
litigano. Anche lì, immancabili, i sadhu (santoni) indiani che, a
piedi nudi, vanno su e giù per l'India in cerca di purificazione.
Anche loro ricercano il presente, ma allo stesso tempo si prefiggono
delle mete a breve e lungo periodo. Scelgono una direzione, ma
cercano di assaporare ogni movimento in essa.
E' qui che
devo introdurre la filosofia, o meglio la metafora, del tavolo da
biliardo. Mi son sempre chiesto se esistesse una via di mezzo tra il
concentrarsi e vivere completamente il presente, “alla giornata”,
senza legami col presente e futuro, ed il suo opposto, caratterizzato
dalla necessità di ricostruire gli errori del passato, pianificare,
prevedere nuovi sviluppi e metterli in atto secondo un cronogramma
ben valutato. Una via di mezzo tra Libero Arbitrio e Predestinazione.
Un gran trip, insomma.
Avevo letto
in un libro, due mesi prima, non ricordo quale, che per comprendere
quella via di mezzo bisogna pensare al gioco del biliardo. Chiunque
vi abbia giocato almeno una volta sa che se vuoi vincere, devi
mettere le palle in buca, e per riuscire in tale intento, devi
scegliere una buca, quindi, una direzione in cui tirare la bianca.
Poi, non è detto che la palla vada li' dove avevi scelto, perché
esiste il fattore esperienza e l'interazione con i bordi e con le
altre palle. Il destino ed il libero arbitrio sono entrambi in quel
campo, non esiste solo uno dei due: tu decidi in che direzione
andare, dipendendo da quello che ami fare, dalle tue caratteristiche
intrinseche, o da quello che ti convincono di fare. Poi,
l'interazione con le altre entità della vita, ossia le altre
persone, le partite che stanno giocando loro, e le leggi (fisiche e
non) che in qualche modo definiscono i margini di sviluppo delle tue
scelte e che fanno sì che quella persona o quell'evento vengano in
contatto con la tua vita, danno il risultato finale. Voglio dire,
l'importante è concentrarsi nel tirare in quella direzione, ed
essere disposti ad accettare che il risultato possa essere diverso
dallo sperato, meglio o peggio non importa, perché abbiamo un altro
tiro a disposizione, per correggere la rotta, ed un altro ancora, e
così via. Ogni tiro è indipendente dal precedente, il passato non
deve condizionarci troppo, e al futuro, alla meta, ci arriveremo
comunque, se giochiamo secondo la nostra natura, assaporando ogni
tiro..In fine puoi pensare che la morte sia il termine della partita,
o puoi credere che la trasformazione implichi un nuovo inizio invece
che una fine, anche questo non importa.
Il Mondo è
una merda, a causa di coloro che giocano a fottere gli altri, perdendo se
stessi. Il Mondo è un fiore, grazie a chi gioca con gli altri, senza
dimenticarsi. Questa è solo la mia realtà.
La realtà
che dura qualche istante di secondo, quando comprendi qualcosa, o ti
viene un'idea favolosa, quando hai un raptus omicida, guardi una
persona negli occhi e la riconosci, ti innamori, soffri un trauma,
hai un incidente o ti dicono che chi amavi non c'è più, tutte cose
che cambiano radicalmente la vita, e bastano pochi istanti, tanto che
se riuscissimo a comprimere l'intera nostra vita negli avvenimenti
davvero importanti in cui abbiamo girato l'angolo, cominciando a
colpire in un'altra direzione, arriveremmo al massimo ad un minuto.
Uno zipfile
della tua vita, quello che dicono appaia davanti agli occhi quando,
prima di morire, stai pensando l'ultimo pensiero. Quello da cui
dicono dipenda il primo pensiero della vita successiva.
Da quelle
camminate ad ora è passato un anno e mezzo. Nonostante le presunte
illuminazioni appena descritte, le lampadine sembrano rompersi troppo
facilmente. L'oscurità fa capolino, di tanto in tanto, ma cerco di
assaporarmi pure quella, per limitare i danni. Ho passato l'anno dopo
l'India in Italia (cambiamenti traumatici...), per ristabilire certi
legami, con persone, terre e eventi passati. Per rinnamorarmi della
terra che avevo abbandonato con rabbia. Di fatto, non sono mai
ritornato in Italia. Quel giugno 2011 ci sono venuto, in un certo
senso, per la prima volta, con lo sguardo inevitabilmente cambiato
dai 5 anni all'estero. C'è chi dice che in Italia ci sto male. E'
vero a metà: l'Europa e l'Occidente in generale hanno la capacità
di riassorbire in fretta chiunque vi ritorni, e di riconvincerti che
certi schemi e modi di vivere sono gli unici che possono assicurare
il futuro come dev'essere. Per evitare questo, quindi, bisogna
opporre una certa resistenza e consumare molte energie. Gli amici
lavorano, hanno figli, si sposano, e sono felicissimo quando gli
leggo negli occhi la soddisfazione di star vivendo la vita che hanno
scelto di vivere. Biasimo unicamente chi può scegliere e non lo fa.
Io ho scelto di venire in Italia, e devo dire che ho sviscerato
questo Paese e continuerò a sviscerarl di tutto quello che ha da
offrire. Il prezzo da pagare per aver scelto di fare troppe cose è,
ovviamente, quello di avere passato periodi di nervosismo più
frequenti, o scatti d'ira o serate di tristezza che certamente in
Oriente erano meno frequenti.. fatto sta che ho provato a
concentrarmi sulle cose che avevo imparato ed amato in Messico e
India, e ho tentato in qualche modo di riproporle in Italia. A volte
è andata male, e la frustrazione è stata tanta, ma ci riproverò.
In conclusione e nonostante tutto, ho trovato un feeling accattivante
con Firenze e con l'Italia, e penso che sia già tanto.
Così
arriviamo al passato prossimo, perché il presente sarebbe solo “sto
scrivendo”. Per chiudere il cerchio, lo strumento del “godersi il
tragitto senza smaniare per il traguardo” mi è stato di
fondamentale importanza nella settimana passata, quando sono tornato
da Morelia, Messico, a Leon, Nicaragua, via terra. Esattamente 55 ore
di autobus, spalmate in 3 notti e 4 giorni. Ho letto, sì qualcosa.
Ho ascoltato, sì, qualcos'altro. Fondamentalmente, ho guardato fuori
dal finestrino, di giorno, e dormito, di notte..Il tempo è passato
in un attimo, lo spazio in un segmento, la mente in un pensiero: Lei.
Quest'altra
storia però spero di scriverla tra 50 anni.
20.13, Leon, Nicaragua.
Sri Pada, Sri Lanka (foto di Damitha Ganigadda) |
Gaumukh, Gangotri Glacier, India (foto di Puer et Senex 2011) |
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