07 gennaio 2013

Breathe


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Si dice che Buddha, nel suo girovagare in Oriente, sia arrivato anche in Sri Lanka. Quando vi arrivò, lasciò un'impronta sul picco di una montagna nel mezzo dell'isola. Questa montagna da allora si chiama Sri Pada (la sacra impronta) o, nella sua invadente versione cristiana, Adam's Peak (facile l'associazione d'idee). Il pellegrinaggio in questo luogo è imperativo per i buddhisti, per i viaggiatori e per chiunque piaccia camminare una notte lungo uno stretto e ripido crinale rinforzato con circa 5000 gradini. Essendo buio, è altrettanto imperativo seguire le luci che, come un giallastro serpente senza testa ne' coda, ti apre sinuosamente la strada verso le tenebre più assolute, se intraprendi la marcia durante la luna nuova. Altrimenti dev'essere uno spettacolo ancor più suggestivo. Curioso come sono, pregusto la soddisfazione della scalata e della vista all'alba in cima al mondo, con quel pizzico di egocentrismo ed arrivismo più tipici in un occidentale che in un singalese, il cui unico obiettivo, nell'intraprendere la divina scalata, è puramente quello di dimostrare la propria devozione e purificare lo spirito. Un'altra forma di intraprendenza, quella che spinge il praticante del dharma (l'etica buddista) a raggiungere l'unica e vera meta finale, il distacco dalle cose astratte e materiali, dalle bramosie e timori, uno ad uno, fino a liberarsi della dipendenza più profonda: l'attaccamento alla vita e il desiderio, quindi, di rivivere, di continuare ad essere parte involontaria del circolo delle rinascite, del Samsara. Camminare fino al tempio in cima allo Sri Pada è uno strumento di meditazione che ha proprio lo scopo di captare l'essenza del qui e ora, primo passo per il distacco totale, il Nirvana.

Io, ovviamente, non sapevo ancora un cazzo di 'sta roba, volevo solo camminare, di notte, da solo, in una direzione, per godermi un bel paesaggio all'alba. Terra terra, insomma. Quindi, dopo aver raccolto gli ultimi consigli a riguardo, tipo Parti verso le 2 di notte per essere alle 6 su, Portati del cioccolato, delle buone scarpe e una coperta, Va' con karma, Quando riscendi non camminare bensì saltella sennò di fotti le ginocchia e, soprattutto, Non accettare caramelle dagli sconosciuti (ringrazio sempre chi mi fa questa raccomandazione, se la seguissi mi risparmierei un sacco di diarree), mi preparo due litri di tè, caldo ma poi freddo, ed esco dall'ostello, col fare sicuro ed il passo certo, verso...boh, verso dove? E' buio e si vedono solo stelle. Mi faccio piccolo piccolo e seguo una famigliola singalese fino all'inizio delle gradinate, da lì continuo da solo. E' proprio come me l'avevano descritta: una serie infinita di gradini illuminati da luci al neon, sostituite dal progresso alle lampade al olio. Verso il nulla, che dicono sia circa 1000 metri sopra. Per farla breve, perché la camminata non lo è stata affatto, ho passato la prima ora a pensare a mille cose, soprattutto a “quanto diavolo mancherà?”. Ogni 500 gradini circa facevo pausa cioccolato e tè, piccole mete intermedie che addolciscono il tragitto. Comincio ad osservare le persone, che, di tanto in tanto, incontro e supero (sì, sono fastidiosamente veloce quando cammino e, soprattutto, quando salgo le scale e mi mancano 500 gradini alla prossima pausa cioccolato). Identifico due tipologie di persone: i trekking-turisti, o trekkisti, ed i pellegrini buddisti. I trekkisti sono super attrezzati, con iper scarpe, giga zaini, tera polpacci, e duemila rifornimenti. Camminano con passo regolare, sostenuto, non guardano in faccia a nessuno, il respiro un metronomo, il personaggio di riferimento: Terminator. Li guardo e sorrido, sicuramente non sono uno di loro, nel senso che sì sono turista e sì mi piace fare trekking, ma non sono un trekkista, almeno osservando come sono vestito e le scarpe sbrandellate che ho ai piedi. Sopratutto, non sono tedesco. Poi ci sono i devoti: famiglie in pellegrinaggio, composte da svariati elementi, tra i quali attirano la mia attenzione le nonne, definitivamente agli antipodi rispetto ai trekkisti. Una signora in particolare cattura la mia attenzione, sulla cinquantina (dimostrandone 80), senza scarpe, che mormora un mantra in lingua pali, con un bambino in spalle...senza scarpe, con un bambino in spalle...dentro di me cigolii di una porta che non avevo mai aperto. Comincio a notare i movimenti di questo miracolo, che compie ogni passo, ogni gradino, come se fosse il primo, e l'ultimo. Inimmaginabile la fatica, inimmaginabile la fede. Due mondi, sullo stesso sentiero, diversi i propositi, medesima la meta. Io, nel mezzo, condannato ad essere osservatore esterno degli avvenimenti, archetipico eremita, acquario, osservatore del flusso e allo stesso tempo vettore dello stesso, sposto la mia attenzione dal modus operandi scientificamente occidentale, al lento ed infinito flusso del presente. Smetto di guardarmi attorno, perché il fuori è bello, sì, ma il dentro dicono che lo sia di più. Il mio cervello fa clic, la leva si sposta su “concentrai sul tragitto, non sulla meta”, la porta smette di scricchiolare, è ora completamente aperta, entro in una stanza che è fatta di sensazioni, quelle nei piedi, che toccano il suolo e poi lo abbandonano, quella degli alluci che frizionano sugli indici e sui calzini, quella della gamba, che si solleva, si sposta in avanti e si riabbassa, fino ad un nuovo contatto con la terra. Un'altra volta, i 4 elementi: il fuoco, un movimento dal basso verso l'alto, del piede destro che si stacca da terra; l'aria che sotto forma di vento muove il piede in avanti; l'acqua, fedele alla legge di gravità che la obbliga a scendere. Così fa il piede, poco prima di toccare e sperimentare l'ultimo degli elementi, la terra, sulla quale fa forza, permettendo all'altro piede di sollevarsi, ristabilendo le condizioni naturali di equilibrio. Ho trovato il mio mantra, grazie signora ji. Non è fatto di parole, di immagini, di speranze ne' di conti alla rovescia, arrabbiature e dolori muscolari, è una ripetizione circolare del presente: Un respiro, che agisce. Questo significa mantra, in sanscrito. Mi trovo quindi a concentrarmi su ogni singolo passo, non so più chi incrocio, da chi vengo superato, chi e cosa c'è attorno a me, se non un percorso, terminato il quale mi risveglio.

Sono alla fine (o all'inizio?), del cammino. Un picco, un tempio. Centinaia di persone, distese sotto le coperte, in attesa dell'alba, la quale, puntuale, fa capolino tra le montagne, camuffata tra le nuvole rosa ed il senso di sollievo dei visitatori. Si cominciano a contraddistinguere i laghi, le vette, gli uccelli, il cui primo canto viene interrotto da un profondo gong. Cominciano i canti sacri. Partono le foto, la magia sembra perdersi tra le “turisticate”, immancabili in ogni occasione speciale; invece l'atmosfera sacra rimane, perché è troppa, non bastano delle foto digitali e degli stretching qua e là per annullarla. Non so quanto tempo mi fermo lassù, a contemplare il panorama, i canti, i devoti abbracciati che cominciano ad uscire dalla coperte, e a ripensare a quello che, salendo, avevo sperimentato. So solo che ad un certo punto stavo balzellando verso valle, lasciando che fosse la gravità a portarmi giù.

Avevo portato con me un secchio, vuoto. Ad ogni gradino a cui avevo fatto attenzione, avevo versato in quel secchio un goccio d'acqua. Ogni istante goduto era qualcosa in più. Acqua, vita che mi riempiva. Sono arrivato in cima che il secchio era pieno, ma non pesava. Bensì spingeva, verso il basso. Così l'ho svuotato, sul primo/ultimo gradino, e con quella cascatella che si è venuta formando, sono ridisceso. Per circa un'ora e mezza ho fluito, risentendo ogni cambio di pendenza, ogni gradino, ogni istante, l'aria che cominciava a riscaldare, il sole che ora illuminava la signora ji col bambino. Assorta nel suo, di presente, a metà del suo cammino continuava a ripetere quel mantra.

Allora continuo a scendere. Accanto a me appaiono tutti coloro che cercano, a proprio modo, il loro presente. Con l'arte, per esempio: suonando, dipingendo una tela, cantando o ballando si riesce a carpire quell'istante presente di cui tanto abbiamo bisogno, per non rimanere incatenati ai pensieri passati o per non farci tirare troppo rapidamente da un futuro che, spesso, non è quello che volevamo un istante prima. Ogni nota, ogni pennellata, ogni movimento del corpo, è una di quelle gocce che riempie il secchio, per questo l'artista non può fare a meno di essere artista. E allo stesso modo chi va a correre, nuota, o spinge sui pedali: qualunque sport, se fatto per amore allo sport e non per eccessivo narcisismo, richiede una notevole concentrazione sul presente. Nell'abbracciare, baciare, toccare, fare l'amore, non c'è tempo e spazio per altri pensieri, tanto che se non sei lì, in quel momento, abbracciando, baciando, toccando e facendo l'amore, cioè ci sei, fisicamente, ma non con tutto te stesso, lei o lui ti sgama subito, e il bacio è freddo, il tocco è fastidioso, l'orgasmo è precoce, o tardivo. Altro modo di sentire il presente è meditando: cambiano i fattori ma il risultato rimane lo stesso. Se vivi il presente, vivi davvero. Questo non vuol dire che uno debba fregarsene di fare piani, o che la direzione e la meta non siano importanti at all, ma della filosofia del tavolo da biliardo ne parlerò dopo. Ora mi limito ad estendere il ragionamento a tante altre persone, attività e lavori, come per esempio i medici, che non possono permettersi di pensare ai fatti loro quando hanno per le mani un paziente a cui devono salvare o migliorare la vita; i professori, che devono dare un certo peso ad ogni loro parola, se vogliono avere un impatto costruttivo sugli allievi, gli artigiani, che devono concentrarsi sul movimento delle loro mani e dello strumento che stanno usando . Alla fine ti accorgi che tutti, se vogliamo fare bene un lavoro, o uno sport, suonare bene, o tessere una bella sciarpa, dobbiamo per forza appellarci al presente. E' un'arma potentissima. E quando non la usiamo, ci perdiamo tutta la bellezza.

Ogni saltello verso valle è un pensiero, ora rivolto a Siddharta di Hesse, ora ai film L'attimo Fuggente e La Forza del Campione, ai concetti del karma, del qui e ora, della Forza jedi, il Koln Concert di Keith Jarrett ed ai raga di Ravi Shankar, al tiratore di coltelli, a Pantani in fuga in salita, alla signora Ji col bambino, ai devoti in pellegrinaggio verso uno dei luoghi santi indiani, e ad altri 4988 messaggi.

Compio un balzo più ampio, di qualche mese, di qualche migliaia di chilometri, fino a Gangotri, Uttarakhand, India. Un altro luogo dove si è aperta una porta, alla fonte di uno dei tre fiumi che, congiungendosi, formano il Gange. Due giorni di cammino, lungo una valle che dal villaggio di Gangotri porta, dopo 20 km, a circa 4500 metri, sul fronte del ghiacciaio dal quale sgorga, attraverso Gaumukh (la bocca della mucca), il fiume sacro indiano per eccellenza, impetuoso, energico e turbolento fin dalla nascita. Sullo sfondo, la parete del ghiacciaio e, più in là, i picchi del Bhagirathi. Arriva il suono squarciante causato dal crollo di porzioni di ghiaccio, unico rumore che riesce a sovrastare l'incessante grido del fiume, simile a quello di un leone, un elefante ed una scimmia urlatrice che litigano. Anche lì, immancabili, i sadhu (santoni) indiani che, a piedi nudi, vanno su e giù per l'India in cerca di purificazione. Anche loro ricercano il presente, ma allo stesso tempo si prefiggono delle mete a breve e lungo periodo. Scelgono una direzione, ma cercano di assaporare ogni movimento in essa.

E' qui che devo introdurre la filosofia, o meglio la metafora, del tavolo da biliardo. Mi son sempre chiesto se esistesse una via di mezzo tra il concentrarsi e vivere completamente il presente, “alla giornata”, senza legami col presente e futuro, ed il suo opposto, caratterizzato dalla necessità di ricostruire gli errori del passato, pianificare, prevedere nuovi sviluppi e metterli in atto secondo un cronogramma ben valutato. Una via di mezzo tra Libero Arbitrio e Predestinazione. Un gran trip, insomma. 
Avevo letto in un libro, due mesi prima, non ricordo quale, che per comprendere quella via di mezzo bisogna pensare al gioco del biliardo. Chiunque vi abbia giocato almeno una volta sa che se vuoi vincere, devi mettere le palle in buca, e per riuscire in tale intento, devi scegliere una buca, quindi, una direzione in cui tirare la bianca. Poi, non è detto che la palla vada li' dove avevi scelto, perché esiste il fattore esperienza e l'interazione con i bordi e con le altre palle. Il destino ed il libero arbitrio sono entrambi in quel campo, non esiste solo uno dei due: tu decidi in che direzione andare, dipendendo da quello che ami fare, dalle tue caratteristiche intrinseche, o da quello che ti convincono di fare. Poi, l'interazione con le altre entità della vita, ossia le altre persone, le partite che stanno giocando loro, e le leggi (fisiche e non) che in qualche modo definiscono i margini di sviluppo delle tue scelte e che fanno sì che quella persona o quell'evento vengano in contatto con la tua vita, danno il risultato finale. Voglio dire, l'importante è concentrarsi nel tirare in quella direzione, ed essere disposti ad accettare che il risultato possa essere diverso dallo sperato, meglio o peggio non importa, perché abbiamo un altro tiro a disposizione, per correggere la rotta, ed un altro ancora, e così via. Ogni tiro è indipendente dal precedente, il passato non deve condizionarci troppo, e al futuro, alla meta, ci arriveremo comunque, se giochiamo secondo la nostra natura, assaporando ogni tiro..In fine puoi pensare che la morte sia il termine della partita, o puoi credere che la trasformazione implichi un nuovo inizio invece che una fine, anche questo non importa. 

Il Mondo è una merda, a causa di coloro che giocano a fottere gli altri, perdendo se stessi. Il Mondo è un fiore, grazie a chi gioca con gli altri, senza dimenticarsi. Questa è solo la mia realtà.

La realtà che dura qualche istante di secondo, quando comprendi qualcosa, o ti viene un'idea favolosa, quando hai un raptus omicida, guardi una persona negli occhi e la riconosci, ti innamori, soffri un trauma, hai un incidente o ti dicono che chi amavi non c'è più, tutte cose che cambiano radicalmente la vita, e bastano pochi istanti, tanto che se riuscissimo a comprimere l'intera nostra vita negli avvenimenti davvero importanti in cui abbiamo girato l'angolo, cominciando a colpire in un'altra direzione, arriveremmo al massimo ad un minuto.

Uno zipfile della tua vita, quello che dicono appaia davanti agli occhi quando, prima di morire, stai pensando l'ultimo pensiero. Quello da cui dicono dipenda il primo pensiero della vita successiva.

Da quelle camminate ad ora è passato un anno e mezzo. Nonostante le presunte illuminazioni appena descritte, le lampadine sembrano rompersi troppo facilmente. L'oscurità fa capolino, di tanto in tanto, ma cerco di assaporarmi pure quella, per limitare i danni. Ho passato l'anno dopo l'India in Italia (cambiamenti traumatici...), per ristabilire certi legami, con persone, terre e eventi passati. Per rinnamorarmi della terra che avevo abbandonato con rabbia. Di fatto, non sono mai ritornato in Italia. Quel giugno 2011 ci sono venuto, in un certo senso, per la prima volta, con lo sguardo inevitabilmente cambiato dai 5 anni all'estero. C'è chi dice che in Italia ci sto male. E' vero a metà: l'Europa e l'Occidente in generale hanno la capacità di riassorbire in fretta chiunque vi ritorni, e di riconvincerti che certi schemi e modi di vivere sono gli unici che possono assicurare il futuro come dev'essere. Per evitare questo, quindi, bisogna opporre una certa resistenza e consumare molte energie. Gli amici lavorano, hanno figli, si sposano, e sono felicissimo quando gli leggo negli occhi la soddisfazione di star vivendo la vita che hanno scelto di vivere. Biasimo unicamente chi può scegliere e non lo fa. Io ho scelto di venire in Italia, e devo dire che ho sviscerato questo Paese e continuerò a sviscerarl di tutto quello che ha da offrire. Il prezzo da pagare per aver scelto di fare troppe cose è, ovviamente, quello di avere passato periodi di nervosismo più frequenti, o scatti d'ira o serate di tristezza che certamente in Oriente erano meno frequenti.. fatto sta che ho provato a concentrarmi sulle cose che avevo imparato ed amato in Messico e India, e ho tentato in qualche modo di riproporle in Italia. A volte è andata male, e la frustrazione è stata tanta, ma ci riproverò. In conclusione e nonostante tutto, ho trovato un feeling accattivante con Firenze e con l'Italia, e penso che sia già tanto.

Così arriviamo al passato prossimo, perché il presente sarebbe solo “sto scrivendo”. Per chiudere il cerchio, lo strumento del “godersi il tragitto senza smaniare per il traguardo” mi è stato di fondamentale importanza nella settimana passata, quando sono tornato da Morelia, Messico, a Leon, Nicaragua, via terra. Esattamente 55 ore di autobus, spalmate in 3 notti e 4 giorni. Ho letto, sì qualcosa. Ho ascoltato, sì, qualcos'altro. Fondamentalmente, ho guardato fuori dal finestrino, di giorno, e dormito, di notte..Il tempo è passato in un attimo, lo spazio in un segmento, la mente in un pensiero: Lei.

Quest'altra storia però spero di scriverla tra 50 anni.


20.13, Leon, Nicaragua.

Sri Pada, Sri Lanka (foto di Damitha Ganigadda)
Gaumukh, Gangotri Glacier, India (foto di Puer et Senex 2011)




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