Nei giorni di luna piena di ottobre ho conosciuto padre Patrizio, l’anziano
sacerdote bergamasco della comunità montana della Garnacha, vicino ad Estelì, nel
nord del Nicaragua. La sua storia é affascinante: 18 anni fa si trasferí in
quel minuscolo villaggio per sostituire il vecchio parroco di San Nicolás, dopo
aver vissuto i 20 anni precedenti a New York, prima ad aiutare gli eroinomani e
gli alcolizzati del Bronx, poi ad occuparsi dei bagni pubblici dei quartieri
“difficili”, che a suo dire venivano lasciati in delle condizioni davvero
spaventose. La cosa più difficile, scherza, non era avere un rapporto con
quelle persone così “piene di agressività”, ma rendere quei cessi agibili...
Appena sa che sono italiano mi offre un caffè, coltivato a pochi
chilometri di distanza e preparato in una moka italiana. Comincia a raccontare, in un italiano
meticcio, che aveva deciso di trasferirsi, senza alcun indugio, appena aveva
saputo che c'erano persone che stavano affrontando una guerra civile, in
Nicaragua. C’era chi aveva bisogno di parlare di qualunque altra cosa non fosse
guerra e morte. Era giunto alla Garnacha e si era subito sentito a casa. Alla
mia ingenua domanda “come ha ricominciato da capo in un piccolo paesino
sperduto dopo tutto quel tempo in una grande città”, mi risponde, regalandomi
uno dei suoi pochi sguardi, profondi ed ironici, che per lui non vi era mai
stato un “ricominciare da capo”, ma che tutto era ed é un cambiamento continuo.
Che a lui l'unica cosa che interessa sono le persone, nient'altro. Non gli
interessa nemmeno se queste persone credono in Dio o no: infatti “se qualcuno
vuole parlare di Dio con me, ben volentieri, sennò non c'è bisogno di
affrontare l'argomento”.
Mi chiede di me, gli rispondo che sono un volontario patologico,
geologo di formazione e che mi occupo di acqua del sottosuolo. A queste ultime
parole si illumina e mi regala una perla: la metodologia del rabdomante.
Difficile da credere, ma dice di aver trovato tutti i pozzi del villaggio con
un fil di ferro e delle domande ben poste. “vuoi vedere come faccio?”. E come
no!
Sparisce.
Vado fuori, all'aperto, ai 1300 metri, dove il sole abbaglia senza
soffocare. Il cielo è azzurro, e padre Patrizio torna con il suo fil di ferro.
Ne afferra le estremità con i pugni, che appoggia sui fianchi. Si concentra
perché “ci vogliono energie sufficienti a capire la Terra”. Comincia a spiegarmi
che l'importante è fare le domande giuste, per esempio “c'è acqua buona qui
sotto?” o “qual è il punto dove c'è più acqua?”. Il filo comincia a vibrare e
girare su se stesso, nella direzione in cui, secondo i principi di questa
rabdomanzia, è ubicata la sorgente d'acqua.
L’enfasi sta tutta nella domanda. La domanda giusta. Il fil di ferro é
solo uno strumento, un veicolo, del dialogo uomo-natura. L’acqua trova il modo,
chissá, forse attraverso le sue proprietá fisiche, conduttive, magnetiche, cristalline,
sconosciute, di comunicare la propria presenza. E noi siamo fatti d’acqua.
Bisognerebbe reimparare ad usarsi per ascoltarsi.
Paziente Tiraboschi sembra aver ritrovato questa dualitá con la
Terra. Dio, a me, sembra solo il terzo incomodo. Ora non aspetta altro che
rinunciare al suo incarico di parroco e ritirarsi in una casetta nella vicina
foresta di pini, cosi’ poco tropicale ma cosi’ simile ai suoi luoghi d’infanzia.
Devo andare, vorrei dirgli che é grazie ad incontri come questi che amo viaggiare. E’ grazie alle persone come lui che la speranza é sempre l’ultima a
morire. E’ dalle persone cosí che accetto insegnamenti... e dalle persone
che amo. Invece mi esce solo un commosso E’ stato
un piacere, Adiós.
Le Pape - Arcano Maggiore V |
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